L’aurora vegliava
sulla carcassa accatastata
di nerofumo,
un fulgido offuscamento
pietrificato.
Lamelle perturbanti
solevano ticchettare
in lontananza,
fra latrati
di anime che mai fecero ritorno
per vil boschi
e torrenti disertati.
Arse il tiepido inganno
brandendo
nauseabonde pretese
di mutilati sensi,
truci vendette,
opprimenti tracciati,
vette d’onniscienti violenze
pari alla via dei predoni
ove strozzano, schiamazzano,
defecano nell’intelletto.
In una morbida chioma
di terra ed edera
rimiravo l’amabile assente,
vani raggi della notte
che confondevano attese
sospese e veglie protese,
tra poco i contorni
avrebbero abbracciato
il cupo fondale
per dar spazio al chiassoso
indefinito.
Ancora poche notti
di turpe angoscia
ormai lasciata la strada
del tenero soffio di lume,
a sopraggiungere
la spietata cortina
dell’inverno
l’umana follia
pretestuosa sopravvivenza,
per scrollarsi di dosso
l’amorevole paradosso,
oh sì dolce fra le utopie
averti tenuto
fra le mani tremule, indecise,
un anno intero.
Non s’udiron ragioni.