L’aereo s’innalzò celere
sulle ali della mesta sinfonia
di aquile e penne
brillanti di fagiano
cucite fra le nostre iniziali.
Pianure desertiche
intorno alle rocce
di baci sedimentati
su picchi di sterpaglie
avvolgenti, lo strazio
lacerato degli abbracci
immaginati.
Lacrime aride
in spessi vetri
appannati,
l’inerme giaciglio
a cui mai si rivolse
consolazione,
lande di violette di Parma
effervescenze di pelle.
Fosti armato
di reali tarli
e arabeschi privilegi,
il giorno trascorse
e non trovò che amor
giaciuto.
Sospiri infelici,
le ragioni della terra
strapparono petali
di luce al delicato piacere
del gentil sguardo
calato nelle solinghe tenebre
di plenilunio.
Vaporizzami di parole
dal torrido profumo
del nostro focolare,
sfiorando rossi ciuffi
in sogni familiari,
rincorrendo templi di giada
nella morsa di un insolente
trascorso.
Sopravviventi,
sentieri di boschi
e cicaleccio incessante,
tornanti mescolati
a peonie e iris
di eterne primavere.
Lasciati, sfusi
tra blocchi fogli
e incarti
da mesi incerti intoccati,
limbo cocente tortura
e occhi magnetici da chiudere a chiave.
Perdemmo il volteggio
o cosa,
sortendo lo stesso effetto.