Il diapason dell’anima
puntava sulle tredici
battendo insistentemente
il divenire resosi nulla
in abiti convenzionali.
Evitammo l’ultimo desiderio
a cadenza di perversi ritmi tribali,
volgendo l’arcana predizione,
trascendevano la maestosità
di fanciulleschi sguardi
e moti di rigogliose gardenie
soavemente pennellate di fine incanto di pioggia.
Noi spettatori di complice torpore,
il solstizio irradiò contorni vacillanti
di carni e sangue.
Rifrazioni sino a te, non privarmi
di inutili righe stonate di un Oceano,
non torneranno
e sarà anche il nostro respiro finale.
Distante averti
d’età ormai a dividere le nostre mani,
era una flebile luce
fra crepuscoli reiterati
con la violenza degli impotenti,
una corona d’alloro il canto d’usignolo
dedicavan mondi sommersi di spighe
in caparbi volteggi di rondini,
esorcizzavan le nostre miserie e gabbie.
Libeccio che donerai
le mie lacrime al destino cieco,
due amanti senza cielo.
Chi insegnerà la nostra storia
un’altra meteora già fu e ancora ancora,
e rimase acerba distruzione
leccandosi le dita.
Sospirami negli acuti eolici dell’imponente Nord,
di strazianti torture
smisi d’amar.
Esule di tramonti stellati
ubriachi fra carri dismessi
e orse desolate.
Ché mi struggei per due occhi
tan’ nobili e puri
che mai più baciai.